lunedì 19 maggio 2014

IL KARATE CHE NON HA LIMITI...

" NELLE ARTI MARZIALI LA TECNICA E' COME IL COSMO: INFINITA. NON VI SONO LIMITI" (Hironori Ohtsuka)


Il Karate ci insegna che i movimenti del proprio corpo sono strettamente legati a come siamo, alla propria personalità. E l’allenamento, che coinvolge tutta la persona, diventa così occasione di entrare in diretto contatto con noi stessi, con i propri limiti e le proprie qualità, consentendo il miglioramento e l' accettarsi per come ci scopriamo ogni giorno. Il Karate aiuta a conoscere e migliorare se stessi, favorisce l’autostima (fiducia in sé, che non diventa prepotenza sull’altro), sviluppa capacità cognitive ( ad esempio, la memoria, l’attenzione e la flessibilità di pensiero) e motorie, aiuta a controllare le reazioni aggressive e sviluppa il rispetto per se stessi e per gli altri.
Il karate può essere praticato senza limiti di età, da maschi e femmine, da disabili, da chi soffre di disturbi mentali o del comportamento, da chi ha problemi fisici.

Si pratica il Karate con il concetto di SPORT INTEGRATO, concetto fondamentale che coinvolge ed avvia i ragazzi alla pratica motoria e sportiva, vista anche come beneficio fisico e psichico, è un compito fondamentale per un migliore sviluppo delle persone.
La finalità principale della nostra Scuola è quella dell’integrazione del ragazzo disabile nella società attraverso un’accurata programmazione delle attività ed un’attenta analisi delle problematiche. Inoltre l’attività motoria del Karate, rivolta alle persone disabili e “normodotati”, sempre in un contesto di integrazione, possa essere vissuta dai ragazzi come un momento di conquista di autonomia personale e di gratificazione per il miglioramento dell’autostima, mentre per un allievo “normodotato” come opportunità di arricchimento interiore e stimolo per superare i pregiudizi e i preconcetti rivolti alla “disabilita”.

Quando si parla i Karate integrato, non si fa altro che parlare di una disciplina marziale che gestisce allenamenti tra allievi disabili e normodotati insieme. Un allenamento di Karate integrato non ha nulla di specifico o particolare, si tratta essenzialmente di una normale lezione di Karate, svolta senza particolari accorgimenti, se non alcune modifiche apportate nel caso in cui nella lezione sia presente un disabile motorio in carrozzina. Nella foto, è possibile vedere come in una normale lezione di Karate è possibile eseguire ogni tipo di esercizio senza creare divisioni specifiche tra allievi normodotati e disabili.
In questo caso, ci troviamo di fronte a due soggetti disabile, il disabile motorio che usa la carrozzina per muoversi,e il disabile mentale (nella lezione è presente un soggetto autistico anch’esso cintura gialla). La particolarità dell’allenamento si basa esclusivamente sull’integrazione tra normodotati e disabili, ma non i sono alcune modifiche nell’allenamento, non ci sono divisioni strutturali, entrambi si allenano nel medesimo luogo e nel medesimo orario.
In Italia, non ci sono molte palestre che attuano questa metodologia di Karate, se ne contano poche e in quel caso non hanno un alto numero di partecipanti, evidentemente ciò è dovuto allo scetticismo da parte di molte persone, il più provenienti dal Karate stesso, che non credono sia possibile che un progetto del genere .
In verità, stiamo parlando di un arte marziale, che come tutte le altre, si basa essenzialmente sul concetto di miglioramento del proprio corpo, sia in campo cognitivo che in campo pratico.
La caratteristica essenziale del Karate, non si basa esclusivamente sul migliorare e migliorarsi, altrimenti si tratterebbe di un’arte marziale svolta da un singolo individuo senza che abbia contatti con le altre persone. In effetti, non è questo che Funakoshi chiama : lo spirito del dojo, un allenamento di Karate viene svolto con tutti allievi, senza fare distinzioni tra etnie, lingua, società e quindi anche di integrità fisica o mentale, al fine di poter migliorare insieme supportarsi al fine di raggiungere uno scopo comune qual è non il raggiungimento del risultato agonistico, bensi il miglioramento di se stessi mentalmente, fisicamente e spiritualmente.

In una lezione di Karate integrato gli unici accorgimenti che si devono apportare sono quelli di adattare il Karate al disabile fisico, che si tratti di menomazioni o di varie categorie di paralisi che costringono il soggetto all’uso della carrozzina, è ovvio che in questo caso bisogna apportare le opportune modifiche all’allenamento, modifiche che, tuttavia, non impediscono al disabile a partecipare all’allenamento insieme con gli altri soggetti.
Non si tratta di applicare dei grandi sconvolgimenti, stiamo parlando solo di piccole modifiche che il disabile deve apportare al suo modo di allenarsi, il mancato uso delle gambe o di qualsiasi altro arto del corpo non deve essere un impedimento, in quest’ottica, abbiamo visto come l’uso delle protesi può tranquillamente sostituire gli arti perduti.
Ma nel caso del disabile in carrozzina, in tal caso, gli accorgimenti si basano sull’applicare un’allenamento basato esclusiva mento su tecniche degli arti superiori, andando a rafforzare petto, spalle, addome, bicipiti, tricipiti e il resto della muscolatura che va dal tronco in su.
Gli spostamenti in avanti o indietro, di lato o i cambi di direzione,possono essere allenati anche sul disabile in carrozzina, certo i tempi di allenamento e di reazione saranno più lunghi, ma ciò non impedisce al disabile di potersi allenare, insieme agli allievi normodotati, e di esprimere al massimo le sue capacità.

L'allenamento: kata,kihon,kumite ...
Abbiamo detto che un allenamento generale di karate si svolge in diverse fasi : stretching, kihon, kata e kumitè.
Tutti questi elementi sono essenziali per fare in modo che un allenamento di Karate sia efficace e produca risultati prefissati. Nel caso di un corso di Karate integrato che presenta nel suo interno sia allievi normodotati, che allievi disabili, il discorso non è diverso.
Lo stretching iniziale non presenta modifiche di vario genere, stiamo parlando di una fase di semplice riscaldamento, che combina posizioni di allungamento muscolare sia per arti superiori che inferiori, e di potenziamento muscolare tramite determinati esercizi a corpo libero facilmente eseguibili.
Non si applicano particolari accorgimenti, in questa fase, si allenano in maniera simultanea sia gli arti superiori che quelli inferiori, ovviamente gli esercizi variano di complessità man mano che il grado di cintura aumenta, ma lo scopo è sempre lo stesso, ossia preparare il corpo allo sforzo che ne seguirà subito dopo l’allenamento.
In questa fase il disabile non trova particolari difficoltà, l’unica eccezione va fatta tenendo conto delle capacità fisiche ed anatomiche residuali del disabile in carrozzina. Ovviamente bisogna tener conto che un soggetto con paralisi, che non può usare gambe o una determinata parte del corpo, tramite il Taiso iniziale, può migliorare e potenziare la parte residuale ancora funzionante o intatta.
Nel caso del Kihon, ossia la combinazione di tecniche di parata e contrattacco con uno o più movimenti, nel caso di disabilità mentali del tipo autismo o sindrome di down, dove viene mantenuta l’integrità fisica, il soggetto disabile non riscontra particolari problemi, mentre nel caso del disabile in carrozzina, il kihon prevede un ritmo leggermente diverso, ovviamente le tecniche saranno adeguate alle capacità funzionali, mentre i movimenti, o meglio il ritmo degli spostamenti seguiranno le esigenze del disabile, ossia dovranno essere necessari a permettere al disabile fisico, di muovere la carrozzina in modo da eseguire correttamente lo spostamento in maniera efficace e nel minor tempo possibile.


Come possiamo vedere, ogni spostamento per il disabile in carrozzina, deve richiedere il tempo necessario affinchè riesca a spostare con entrambe le mani le ruote e infine eseguire la tecnica richiesta. Ciò non vale solo nel kihon ma anche ne kata stesso, dove ogni combinazione, ogni tecnica richiede determinati spostamenti seguiti da un ritmo preciso.
Ovviemente un disabile in carrozzina avrà un ritmo leggermente diverso da quello dei normodotati, in quanto dovrà avere il tempo necessario ad effettuare un spostamento con la carrozzina, pertanto il suo tempo nel kata si basa su : tecnica, tempo necessario a spostare la carrozzina e infine tecnica seguente.
Si tratta di ritmi diversi, ma ciò non toglie che con l’allenamento, tramite l’esercizio, la ripetizione costante, i tempi di spostamento si dimezzino, ciò porterà il disabile a eseguire il kata nello stesso modo e nelle stesse modalità dei normodotati.
Di certo un disabile mentale, avrà un tempo di assimilazione delle tecniche più lungo per un disabile fisico, in effetti l’esercizio ripetitivo e costante, può risultare una dura prova per l’autistico o il soggetto con sindrome di down.
In tal caso molte volte, un esercizio o una combinazione di tecniche non eseguita correttamente può risultare frustante, per un soggetto disabile, tuttavia è qui che entra il gioco il compito del maestro, ossia quello di dare degli input positivi all’allievo. Una semplice frase di incoraggiamento, una modifica alla postura, o un richiamo severo o comprensivo che sia, possono diventare elementi di grande importanza per il soggetto disabile che si sentirà spinto a dare il massimo arrivando a grandi risultati.
Per quanto riguarda il Kumite, il discorso si fa più difficile. In genere nelle varie discipline come il judo o la scherma, possiamo vedere come i soggetti disabili riescano a gareggiare tra di loro nei più alti livelli di competizione, i non vedenti col judo riescono ad eseguire tecniche notevoli pari a quelle eseguite dai normodotati, nella scherma, invece, i disabili in carrozzina riescono ad eseguire affondi o parate di fioretto o di spada a velocità impressionanti pari a quelle dei campioni olimpionici, eppure non vedremo mai un Judoka non vedente gareggiare con un Judoka normodotato, oppure non vedremo mai uno schermidore disabile gareggiare contro uno schermidore normodotato.
Nel karate il discorso non è molto diverso, purtroppo stiamo parlando del Kumite dove sono necessarie velocità e tempi di reazione altissimi, i ritmi sono frenetici e il tempo che intercorre tra parata e contrattacco sono brevissimi, se non addirittura nulli. Sarebbe difficile per un disabile mentale o fisico che sia riuscire ad adeguarsi ai tempi di reazione dei normodotati. Tuttavia il continuo allenamento, la pratica estenuante, la continua ricerca della forma perfetta di Kumite dell’allievo, porta il Karateka disabile a una condizione fisica tale da poter risultare competitivo ad alti livelli di agonismo.
Tutto si basa sul continuo allenamento, il ripetersi costante di esercizi e tecniche eseguite di volta in volta, in maniera sempre più precisa, a velocità sempre più elevate permettono all’atleta disabile di poter effettuare rapidi spostamenti, tempestive combinazioni a velocità impressionante che gli permetteranno di eguagliare e, dove possibile, superare gli altri allievi normodotati.
Il segreto sta nel non porsi mai limiti, la velocità, una buona tecnica sono tutti elementi essenziali di un allievo che non si arrende mai di fronte a qualsiasi tipo di difficoltà, lo spirito di competizione sana che si crea nel dojo, è una spinta ulteriore a indurre l’allievo disabile a voler fare di più, a voler dare il massimo e cercare di superare i suoi compagni. Non si creano distinzioni tra disabile o normodotati, tutti sono spinti dagli stessi obbietivi, ossia dare il massimo al fine di raggiungere livelli competitivi ottimali, e il Kasrate integrato è un elemento essenziale nel raggiungimento di tali obbiettivi, in esso l’atleta disabile può vedere come gli altri allievi eseguono determinate tecniche, come si spostano per evitare un colpo, come fare per riuscire ad entrare nella difesa dell’avversario, in poche prole può confrontare i suoi movimenti con gli altri, capire cosa sbaglia e, senza avvilirsi, riuscire a migliorare le sue tecniche tramite questo confronto cognitivo.

L'importanza del Maestro..
In Italia, non sono molte le palestre che praticano un Karate che riesca a mettere insieme allievi normodotati con allievi disabili, in genere la maggior parte dei maestri risulta, giustamente, più semplice attuare una differente allenamento tra normodotati e disabili, cosi creando due classi distinte di allievi e due tipi diversi di allenamento.
In questo modo il disabile può allenarsi in maniera singolare al fine di riuscire a ottenere risultati efficaci nelle competizioni. In verità, la maggior parte delle palestre mira al risultato piuttosto che alla crescita cognitiva e fisica dell’allievo, perdendo di vista il concetto fondamentale di crescita tramite il confronto con gli altri, che è un elemento fondamentale nel karate stesso.
Secondo i maestri, non esistono differenzazioni, nel caso in cui il corso riguardi dei bambini, tutto si riduce al gioco, che si tratti di bambini disabili o normodotati, è bene che il maestro riesca a coinvolgerli tramite una forma di karate esprimibile con il gioco in cui tutti possano partecipare e apprendere. Nel caso di allievi di piccola età, è bene creare degli espedienti di allenamento al Karate traducibili col gioco, ogni forma di kihon o kata può essere rivisitata tramite un gioco, magari una sorta di gara a chi è più veloce nell’eseguire la tecnica, o chi riesca passare più velocemente da una posizione all’altra in forma corretta ed equilibrata, in poche parole, per i piccoli allievi disabili o normodotati sarebbe opportuno creare un tipo di Karate che sia esprimibile tramite il gioco, la forma più coinvolgente per un bambino per partecipare alle lezioni e indurlo a migliorare e cercare di fare meglio degli altri compagni nel rispetto dei compagni stessi.
In questo contesto, anche il bambino disabile si sentirà spinto a partecipare e a dare il meglio nel gioco che gli viene proposto, diventando una delle pedine fondamentali per portare la squadra o se stesso alla vittoria del gioco stesso, valorizzando quindi le sue capacità.

Nel caso degli allievi di maggiore età, con una certa maturazione marziale, il discorso sarà più complesso. In questo caso, il gioco non può diventare più una forma di apprendimento al Karate, un allievo di cintura superiore (marrone o nera) è consapevole che i risultati raggiunti e da raggiungere saranno frutti del continuo e costante allenamento.
In questo caso, il compito del maestro, non srà più quello di invogliare tramite il gioco i propri allievi, ma in tal caso sarà quello di guidare l’allievo verso un miglioramento delle tecniche apprese quando era cintura inferiore, l’allievo adulto non deve essere invogliato, ma spinto a dare il massimo in allenamento, le modifiche tecniche, gli accorgimenti alla postura, vanno fatti invogliando l’allievo, normodotato o disabile, al miglioramento. Un maestro di Karate integrato non attua nessuna tipo di differenzazione, se c’è da rimproverare la mancanza di dedizione o impegno nell’allenamento, non si crea problema se l’allievo è disabile o normodotato.

Non si tratta di invogliare l’allievo a essere il migliore, ma si tratta di portare l’allievo stesso a dare il massimo, con qualsiasi tipo di input positivo severo o moderato che sia, l’importante è che l’allievo si senta una parte integrante di un gruppo di artisti marziali che dà il massimo, che voglia migliorare insieme alla ricerca di uno scopo comune, ossia il miglioramento interiore ed esteriore.

Nel Karate integrato le parole, i suggerimenti e i consigli del maestro, sono dispensati a ogni allievo e in qualsiasi modo, qualora il maestro si mostri apprensivo o morbido nei confronti dell’allievo disabile, magari mostrando un’errata comprensione per le sue condizioni, senza modificare delle tecniche sbagliate, una posizione sbagliata nel Kata e non richiamata, senza correggere un atteggiamento svogliato nel Kumite o nell’allenamento, finirà col creare una sorta di involontaria estraneazione del disabile dal gruppo, il quale finirà col percepire questo suo senso di diversità, accentuando il senso di diversità tra disabile e normodotato che dovrebbe essere del tutto estraneo al Karate integrato.



venerdì 16 maggio 2014

SERA!!!Amici del Karate!

...KURURUNFA...Cosa vuol dire? ...OPPORSI ALLE ONDE

Il Kururunfa è un Kata che ha movimenti morbidi seguiti da altri veloci e potenti ed impiega una grande quantità di movimenti in NEKO ASHI DACHI. Tuttavia nel Kururunfa la differenza fra "duro" e "morbido" è molto marcata, a causa delle tecniche lente e concentrate che sono seguite da una breve pausa e da una serie di colpi esplosivi e devastanti con lo scopo di distruggere l'avversario.



martedì 13 maggio 2014

BUONGIORNOOO!!!

...E se vi proponessi un video spettacolare, sul meglio del meglio del KUMITE...Come reagireste?



Fatemi sapere cosa ne pensate...

lunedì 12 maggio 2014

I Gradi del Karate

La gerarchia dei gradi di cintura nelle arti del budo è detta kyudan e si suddivide nel sistema degli allievi (Kyū o mudansha) e in quello delle cinture nere (dan: yudansha e kodansha).

Nel budo si considera il kyu come un grado di scuola o di apprendimento e il dan come un grado di autoperfezionamento.
Prima dell'arrivo in Giappone del maestro Funakoshi non esistevano gradi nel karate, fu lui ad inserirli nel 1926, ispirato dal fondatore del Jūdō moderno, Jigoro Kano, che a sua volta si richiamò ad un uso proprio degli antichi sistemi marziali giapponesi.

A seconda degli stili del karate varia la suddivisione delle cinture.

Cinture colorate
All'inizio si indossa la cintura bianca: a volte è necessario sostenere un esame per ottenerla e a volte no, questo dipende dalle regole della palestra e/o federazione di appartenenza. Se si indossa la cintura bianca senza aver fatto l'esame, si è un mukyu, ovvero un senza-cintura.


6º kyu (roku kyu): cintura bianca; Shiro obi Rokukyu

5º kyu (go kyu): cintura gialla; Kiiro obi Gokyu
4º kyu (shi kyu): cintura arancio (o rossa); Daidaiiro obi (Aka obi)

Cintura verde 3º kyu Midori obi Sankyu


2º kyu (ni kyu): cintura blu; Aoiro obi Nikyu

1º kyu (sho kyu o ichi kyu): cintura marrone. Kuriiro obi Shokyu
(rarissimamente Ichikyu)
6º kyu (roku kyu)


Chiunque voglia apprendere le arti marziali comincia nel livello shu (della forma) che comprende l'intero sistema kyu. In esso rientra l'apprendimento basilare delle tecniche (omote) e il raggiungimento del livello psicofisico necessario per toccare i livelli superiori. Si tratta di costruire e rafforzare autodisciplina, volontà, pazienza, comprensione e convivenza con altri, elementi senza i quali non è possibile progredire. Durante questo primo periodo lo sviluppo della tecnica è l'unico criterio di misurazione utilizzabile.

Originariamente il mudansha era rappresentato dalla sola cintura bianca, simbolo della "non conoscenza, della purezza e della libertà della mente"; in seguito fu introdotta la suddivisione tra cintura bianca e cintura marrone, cui si aggiunse poi quella dei colori intermedi. Chi non è pronto per fare gli esami per la propria cintura successiva può scegliere o di non fare gli esami o di prendere una cintura intermedia che comporta un esame più facile, (non molti maestri offrono questa possibilità). Riguardo alla cintura blu non si usa tanto lo "shi kyu" ma questa è una scelta del maestro invece i "san kyu" "ni kyu" e l' "ichi kyu" sono obbligatori.

Omote significa "basilare, fondamentale" e simboleggia il lato visibile dell'arte marziale, quello che ognuno può apprendere: tutte le tecniche vengono scomposte e studiate ricercando la perfezione formale, priva di contenuti spirituali.

Yudansha - Il guerriero
Gradi di maestria tecnica

Livelli di "dan": cintura nera (la cintura nera va dal 1º al 10º dan)
Le classificazioni per i kyū variano da federazione a federazione, ed esistono, presso alcune scuole, ulteriori cinture intermedie (bianca, bianco-gialla, gialla, gialla-arancione, arancione, arancione-verde, verde, verde-blu, blu, blu-marrone, marrone, marrone-nera). Dopo la cintura marrone si passa a cintura nera che rimane tale al raggiungimento di gradi superiori (dan), dal 1º in poi, anche se è possibile trovare federazioni che utilizzano la cintura bianco-rossa per il 6°, 7°, 8° dan e rossa per i 9º e 10º dan. L'ideogramma dan si trova anche nella parola shodan, che significa "principiante", per dimostrare come l'aver impiegato alcuni anni per diventare cintura nera sia davvero poca cosa in confronto a tutti gli anni di allenamento che aspettano. Generalmente, le cinture si ottengono per esami fino al 5º dan, mentre dal 6º dan in poi, il grado viene assegnato solo per meriti speciali e non più in seguito ad esami, anche se il modo in cui vengono rilasciati i più alti gradi dan può variare da federazione a federazione. Per i gradi più elevati non viene valutata solamente la mera capacità tecnica raggiunta ma soprattutto le doti di esperienza, didattica, organizzazione, sviluppo e dedizione a quest'arte marziale.

Bisogna però sottolineare come il formalismo relativo al vestiario e alle cinture iniziò solamente con lo sviluppo di massa del karate e quindi con la sua commercializzazione, soprattutto in occidente. Alle origini, il karate era praticato con i vestiti quotidiani, spesso solamente con la biancheria intima e non esistevano le graduatorie per cinture. Da molti praticanti di karate tradizionale, la cintura è considerata un simbolo di un certo livello di conoscenza e di percorso ma non possiede certo un valore meramente di grado.

In origine la cintura era solo bianca. Con il passare del tempo, a furia di utilizzarla, essa si sporcava e di conseguenza si anneriva. Perciò più una cintura era nera, ovvero sporca, più significava che veniva indossata da molto tempo; ciò significava che uno con la cintura nera praticava il karate da molto e quindi era bravo, mentre uno con la cintura bianca era agli inizi. Da qui ha avuto origine la colorazione delle cinture bianca e nera e in seguito tutte le colorazioni intermedie in ordine cromatico.


1º dan: grado dell'allievo che cerca la via; Kuro obi Shodan (rarissimamente Ichidan)
2º dan: grado dell'allievo all'inizio della via (dopo almeno 2 anni dal 1º dan); Kuro obi Nidan
3º dan: grado degli allievi riconosciuti (dopo almeno 3 anni dal 2º dan); Kuro obi Sandan
4º dan: grado degli esperti tecnici (dopo almeno 4 anni dal 3º dan). Kuro obi Yodan
Il livello yudansha giunge sino al quarto dan e corrisponde al livello della "libertà della forma" (ha), il livello del guerriero. Il praticante può divenire un esperto di quella stessa tecnica utilizzata ai livelli kyu ma compresa nel suo significato reale.

Il 1º dan (shodan) nel karate consente di indossare la cintura nera ed è il primo passo dell'allievo lungo la Via (do): in questo momento comincia il vero karate. Lo studio si raffina e l'arte marziale viene valutata anche dal punto di vista psicofisico: l'allievo è in grado di capire che dietro l'esercizio fisico c'è la ricerca di uno stato mentale più appagante, così i gradi si evidenzieranno solo quando il praticante avrà superato il livello della dipendenza dalla forma.

Nel 2º dan (nidan) e nel 3º dan (sandan) si uniscono la comprensione dell'importanza dell'atteggiamento mentale e la maggiore efficacia delle tecniche.

Il 4º dan (yondan) è il "livello dell'esperto" e del combattente completo. Il confine della tecnica puramente corporea viene raggiunto e chi lo acquisisce sa che per poter migliorare dovrà cercare e percorrere nuove vie. Egli interiorizza gli aspetti spirituali dell'arte vivendoli nel dojo e nel quotidiano. A questo livello si forma il legame tra la filosofia dell'arte marziale e tecnica. Si possono controllare lo spirito, il respiro e l'energia (Ki) con l'esercizio fisico, legarli alla tecnica e svilupparli al massimo: nella ricerca della perfezione interiore l'esperienza e la maturità offriranno un fondamentale aiuto.

Kodansha - La maestria spirituale
Gradi di maestria spirituale

5º dan: - renshi kokoro, grado della conoscenza (dopo almeno 5 anni dal 4º dan); Kuro obi Godan
6º dan: - renshi (dopo almeno 6 anni dal 5º dan, si acquisisce per merito come i gradi successivi); Kuro obi Rokudan
7º dan: - khioshi (dopo almeno 7 anni dal 6º dan). Kuro obi Sichidan (oppure Nanadan)
I gradi kodansha sono propri del vero maestro di budo: solo essi permettono di condurre un allievo al di là degli aspetti puramente formali della tecnica preparandolo alle conoscenze della Via (do).

Kokoro è colui che raggiunge questa capacità tra il 5° e il 6º dan, ad una età minima di trent'anni perché tale stato presuppone oltre all'esperienza di budo anche quella di vita. Questi dan vengono chiamati anche renshi ed indicano la maturità spirituale di un uomo: sono perciò i gradi dei maestri autonomi.

Generalmente fino al 5° dan è possibile ottenere il grado per mezzo di un esame dopo aver studiato un programma prestabilito, oltre al 5° dan i gradi vengono conferiti solo per meriti conseguiti nell'insegnamento, per comprovata dedizione all'arte e per la diffusione del Karate e dei suoi valori (anche se il modo in cui vengono rilasciati i più alti gradi dan può variare da federazione a federazione).

Irokokoro - La maturità
Grado della maturità

8º dan: - khioshi (dopo almeno 8 anni dal 7º dan); Kuro obi Hachidan
9º dan: - hanshi (dopo almeno 9 anni dall'8º dan); Kuro obi Kudan
10º dan: - hanshi (dopo almeno 10 anni dal 9º dan). Kuro obi Judan
I gradi di maestria più elevati nel budo si chiamano irokokoro e sono espressioni della maturità, legati ai titoli khioshi (7º e 8º dan) e hanshi (9º e 10º dan).

Hanshi vive in totale armonia esteriore e interiore: ha superato ogni ostacolo interno (satori) abbandonando la dipendenza dal possesso e dal prestigio ed anche la paura della morte: sua missione sarà il trovare un degno successore.

Renshi e khioshi rappresentano la cima della piramide dell'insegnamento mentre hanshi ne resta al di fuori: il suo compito non è quello di insegnare a tutti ma di indirizzare i già esperti verso l'ultimo gradino. Egli apre le porte segrete a quanti siano cresciuti oltre la sola tecnica. Questi gradi sono i più elevati raggiungibili in vita e solo pochissimi uomini li hanno ottenuti.

Questi sono i tipici gradi dello stile Shotokan, altri stili (ryū), associazioni (kai), scuole (dojo), possono avere variazioni sia sui colori delle cinture, sia sui tempi che devono intercorrere tra i diversi gradi o livelli.

Curiosità
Il maestro Gichin Funakoshi asseriva spesso dire a chiunque chiedesse se si potesse raggiungere il 10º Dan: "Quando sarai morto ti verrà conferito il 10º Dan: il 10°Dan significa conoscenza assoluta, non avere più niente da imparare, e finché sei in vita c'è sempre da imparare


Il Karate e le Donne...

Oggi, molto diversamente dal passato, sempre più donne praticano il karate.

Non credo che sia particolarmente utile chiedersi il perché, tuttavia sono proprio le donne che pensano di avvicinarsi a questa pratica che domandano se può essere opportuno lasciarsi affascinare.

Dal punto di vista strettamente legato alla tecnica di sicuro non c'è nessuna controindicazione. Anzi le donne, per le loro caratteristiche fisiche, risultano avere una agilità e abilità che le predispongono positivamente alla pratica del karate.

Quello che chiedono spesso le praticanti è di poter praticare essendo considerate come il resto del gruppo formato dall'altro sesso, ma penso che tale discriminazione risieda più nella loro volontà di affermarsi come individuo "alla pari" , che nei compagni di allenamento o nel maestro. E credo che questo sia il frutto di pregiudizi e informazioni errate.

Di sicuro generalmente si pensa alla pratica del karate come ottimo metodo per difesa personale, ma ritengo opportuno sottolineare che non deve essere questo l'unico aspetto da valutare.
Caratteristiche come l'acquisizione di una profonda conoscenza del proprio corpo, l'accettazione dei propri limiti e l'esaltazione delle proprie capacità sono solo alcuni degli elementi che si affiancano ad un percorso che mette in relazione le abilità fisiche a quelle mentali.
Molti possono pensare che il karate possa compromettere i comportamenti legati alla femminilità, a questo proposito cito un intervento risalente al secondo Congresso di Medicina dello Sport tenutosi lo scorso luglio 2003 della endocrinologa Maria Luisa Brandi, docente all'Università di Firenze e tra i massimi esperti in materia di osteoporosi e di medicina sportiva in Italia:

«Qualcuno si arrabbierà ma diciamo la verità: meno danza classica e più atletica, meno cavallo e più Arti Marziali, meno sci e più nuoto. "Bambine, l'800 è finito, ditelo ai vostri genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura muscolo-scheletrica ed un fisico equilibrato"» «Per una ragazza è essenziale imparare le Arti Marziali: oltre al fatto che servono all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono discipline complete, danno una concentrazione straordinaria, fiducia in se stessi, senso dell'equilibrio e concezione dello spazio che sono i requisiti primi dell'eleganza del portamento...»

Per completezza di informazione aggiungiamo cenni storici riguardanti le donne nelle arti marziali e alcuni pareri discordanti di grandi maestri:

La lista dei contributi femminilli alle arti marziali non è affatto breve. Cominciamo dal queste tre rappresentanti:

  • Ng Mui
    Leggendaria sacerdotessa, sfuggita alla distruzione del monastero Shaolin di Fujian. Diventò celebre per aver crato uno stile personale basato sull'osservazione dei comportamenti degli animali in combattimenti, in particolare prese spunto osservando una lotta tra un serpente e una gru. Si narra che utilizzò il suo metodo di combattimento per resistere alle insistenzi avances signore della guerra locale.
  • Yim Wing-Chun
    Allieva di Ng Mui. Dopo la creazione del suo stile personale, Ng Mui trasferi' le sue esperienze ad una altra donna: Yim Wing-chun. Dal suo nome deriva lo stile reso popolare in occidente da Bruce Lee.
  • Yonamine Chiru
    Nel karate di Okinawa si ricorda la figura di Yonamine Chiru, moglie di "Karate" Sakugawa, maestro di Matsumura e caposcuola dello Shuri-te, che l'avrebbe sposata dopo essere stato sconfitto da lei in combattimento.


Alcune dichiarazioni di grandi maestri

Nakayama:

"Perché le donne devono fare le gare, farci vedere chi vince o non vince? Nei combattimenti occidentali, come la boxe o la lotta, non esistono gare femminili. Perché nel karate? Per il momento io non posso credere che le donne debbano fare gare di kumite. Possono raggiungere lo stesso risultato attraverso strade diverse".

Shirai:

"Le donne sono tecnicamente molto precise. Io considero più importante praticare un buon karate, fondamentali e kata, che il kumite sportivo. A mio avviso non troppe donne dovrebbero praticare il kumite, anche se alcune donne hanno buone tecniche per il combattimento libero".

Kanazawa:

"Non c'è una ragione precisa, ma credo che nell'universo esistano due poli, il positivo e il negativo. L'uomo è il positivo, la donna è il negativo: la donna non è fatta per il combattimento".

Yamaguchi:

"Ritengo che togliere il kumite alle donne sarebbe come escluderle da una buona parte del Karate-Budo. Per una donna inoltre il kumite riveste doppia importanza, in quanto le offre un ottimo mezzo di difesa personale. È importante che le donne imparino lo stesso spirito del karate e ricerchino lo stesso fine, che è comune a uomini e donne".

venerdì 9 maggio 2014

L' Arte del KIAI

Il Kiai è un grido pieno di forza ed intenzione a costituire il desiderio di portare a compimento una tecnica marziale. La parola è formata da “ki” , in giapponese mente , volontà, disposizione d’animo e da “ai ”, contrazione del verbo “awaseru ”, che significa unire , congiungere, ovvero una manifestazione dell’energia interna con un suono che crea . A questo scopo si utilizza il grido nella forma esteriore come modo di controllare il ki, come arte di dirigere le energie . Nelle pratiche marziali il kiai è di estrema importanza e questo studio, che raggiunse i livelli massimi nel Giappone Feudale, è ancora oggi impiegato in molte discipline come il karate, il judo e l’aikido.


La parola, Kiai è composta da due ideogrammi:



Ki , raffigura l'energia vitale e universale comune a tutti gli esseri viventi.
Ai , rappresenta l'armonia universale.
Esprime, anche, un grido che rivela e manifesta quel principio orientale di unità ed armonia presente in ogni cosa. Fisicamente, esso permette di collegare, attraverso la cintura addominale, la forza delle masse muscolari che si trovano nella parte bassa con quelle della parte alta del corpo. Energicamente, rivela le vibrazioni dei Chakra.



Le origini



In Giappone si sa pochissimo dell’arte del kiai, ma sono visibili le eredità lasciate ai maggiori Maestri delle arti marziali che tutt’oggi subordinano i fattori esterni del combattimento, armi e tecniche, a elementi di natura interiore, controllo e potenza. Nello specifico quest’arte era vista come l’impiego della voce umana in combattimento, con il duplice effetto di intimorire il nemico e rafforzare il proprio spirito. La particolarità di quest’arte è, in realtà, la tecnica usata, un vettore di eccezionale impatto emotivo: la voce umana. Kiai era il nome dato generalmente a quello specifico metodo di combattimento basato sull’impiego del grido come arma; con l’andare del tempo gli antichi combattenti giapponesi, i “Bushi”, affinarono questa pratica fino a farla diventare un’arte completa in se stessa. Le origini si identificano strettamente con l’immagine di un uomo posto di fronte a una realtà ostile. Il grido, infatti, rappresenta la reazione primordiale al pericolo e alla richiesta di aiuto ed è in grado di far vacillare un nemico o arrestarne addirittura l’attacco. In Giappone questa tecnica fu perfezionata a tal punto da farne la sola arma usata: il guerriero studiava come sviluppare un urlo che incanalasse in tono, altezza e intensità della voce, tutta la sua energia. Il valore tattico del grido nell’influenzare o determinare il risultato del combattimento venne così inserito come studio approfondito delle segretissime scuole marziali per sfruttarne appieno l’effetto paralizzante.

La pratica


L’arte del kiai occupa una posizione specifica nei metodi disarmati da combattimento e al contempo unica. Una pratica esoterica in cui le tecniche e le strategie sofisticate si riducono all’estensione della potenza pura, immateriale, “che non si vede ad occhio nudo”, ma in grado di sopraffare l’avversario. Il kiai abbraccia i concetti di armonia e di spirito. Ki viene spesso usato nel senso di energia, carattere e perciò come indice della personalità del praticante. Ecco che la pratica di quest’arte si concentra sullo sviluppo di una personalità magnetica in grado, attraverso un altro livello di concentrazione, di evocare, attraverso un grido, forti poteri di suggestione atti a “demolire” psicologicamente un attaccante.


Le tecniche

Attraverso una forte contrazione diaframmatica verso il basso, durante la fase espiratoria, si emette un suono profondo (inizialmente seguendo “alla lettera” il suono K I A I) prodotto esercitando la massima pressione sulla parte addominale, in giapponese “hara” in posizione Kiba Dachi. Si definisce haragei il punto massimo di specializzazione dell’arte dei kiai. La documentazione esistente circa le scuole e le tecniche di addestramento è pressocchè inesistente. Si conoscono alcuni particolari:




  • Unificazione preliminare di energie nell’hara .
  • Paralizzare, uccidere o salvare la vita di un altro guerriero con un grido concentrato
  • Kiai come vettore di energia .
  • Funzione di rafforzare la regione del tanden , parte dell’addome situata poco sotto l’ombelico, e quindi fattore dello sviluppo del coraggio fisico e del potere di uno spirito forte e determinato .
  • Nel combattimento, così come nella competizione sportiva, il grido è utilizzato per arrivare al bersaglio e simboleggia un colpo definitivo a cui partecipano corpo, spirito e cuore .
  • Il kiai viene impostato con esercizi e poi coltivato con attenzione finché si incanala spontaneamente nella forma che arricchisce l'azione marziale .

Ki, l’energia che segue il pensiero...
Energia vitale universale che impregna ogni forma manifesta, dandole vita, movimento ed essere. Dall’unione del ki e della forma si sviluppa lo spirito marziale.

Karategi o Kimono da Karate?

Qual è il nome più corretto per definire l’indumento, ovvero l’abito da allenamento che usiamo ogni volta che entriamo nel dojo? È sicuramente molto più facile che abbiate sentito parlare di kimono da karate, perché è una parola semplicemente molto famigliare che si ritrova in molti discorsi associati al Giappone.



Ma dobbiamo qui ricordarlo che la corretta definizione di kimono è: “Indumento tradizionale giapponese costituito da una specie di lunga tunica incrociata davanti, con maniche molto larghe, stretta in vita da una fascia allacciata dietro” inoltre ( 着物 letteralmente cosa da indossare quindi abito) è un indumento tradizionale giapponese nonché il costume nazionale giapponese. In italiano è largamente usata anche la grafia adattata “chimono”. In origine il termine “kimono” veniva usato infatti per ogni tipo di abito; in seguito è passato ad indicare specificamente l’abito lungo portato ancor oggi da persone di entrambi i sessi e di tutte le età. Il kimono è molto simile agli abiti in uso durante la dinastia cinese Tang. Ad ogni modo, da tutto questo si capisce che non possiamo disapprovare completamente chi dice kimono da karate, più che altro potremmo dire che è un termine troppo generico che può essere frainteso con un abito da cerimonia e non certo adatto ad allenarsi e sudare in un dojo. Il termine più spedifico è KeikoGi o meglio ancora KarateGi. keikogiKeikogi o dogi (稽古着 o 稽古衣) è un’uniforme per l’allenamento utilizzata nelle arti marziali giapponesi, il budō. Il termine significa “uniforme di allenamento” da keiko, “pratica”, e gi, “vestito”. Gi è un termine complesso con più significati (come scrivo qui), perciò il tutto si potrebbe tradurre con abito che è nostro dovere indossare per poterci allenare nel luogo che conduce alla via. Spesso “keiko” viene sostituito con il nome dell’arte marziale specifica, nel nostro caso Karate-Gi.



L’utilizzo di una divisa uguale per tutti i praticanti, fu imposto dal Dai Nippon Butokukai (organo ufficiale giapponese che controllava tutte le scuole di arti marziali) che la pose come una delle condizioni che avrebbero permesso alla nuova arte giunta da Okinawa, di essere accettata tra quelle giapponesi.Prima di allora, infatti, ci si allenava con quello che si aveva addosso, il che era inaccettabile per l’ordinata mentalità nipponica, specie se applicata alle arti marziali, che seguivano il modello organizzativo militare. Detto questo, consideriamo che il karategi è più che una divisa da indossare durante l’allenamento. Esso è un compagno di percorso che si lega a noi assecondando i nostri sforzi, le difficoltà, le paure, il dolore… Per me è diverso fare karate con abiti normali, seppur comodi, sento che manca qualcosa, una componente che è entrata a far parte della presa di coscienza e del rispetto mutuato dalla tradizione del budo e non dal fitness o dallo sport.