" NELLE ARTI MARZIALI LA TECNICA E' COME IL COSMO: INFINITA.
NON VI SONO LIMITI"
(Hironori Ohtsuka)
Il Karate ci insegna che i movimenti del proprio corpo sono strettamente legati a come siamo, alla propria personalità. E l’allenamento, che coinvolge tutta la persona, diventa così occasione di entrare in diretto contatto con noi stessi, con i propri limiti e le proprie qualità, consentendo il miglioramento e l' accettarsi per come ci scopriamo ogni giorno. Il Karate aiuta a conoscere e migliorare se stessi, favorisce l’autostima (fiducia in sé, che non diventa prepotenza sull’altro), sviluppa capacità cognitive ( ad esempio, la memoria, l’attenzione e la flessibilità di pensiero) e motorie, aiuta a controllare le reazioni aggressive e sviluppa il rispetto per se stessi e per gli altri.
Il karate può essere praticato senza limiti di età, da maschi e femmine, da disabili, da chi soffre di disturbi mentali o del comportamento, da chi ha problemi fisici.
Si pratica il Karate con il concetto di SPORT INTEGRATO, concetto fondamentale che coinvolge ed avvia i ragazzi alla pratica motoria e sportiva, vista anche come beneficio fisico e psichico, è un compito fondamentale per un migliore sviluppo delle persone.
La finalità principale della nostra Scuola è quella dell’integrazione del ragazzo disabile nella società attraverso un’accurata programmazione delle attività ed un’attenta analisi delle problematiche. Inoltre l’attività motoria del Karate, rivolta alle persone disabili e “normodotati”, sempre in un contesto di integrazione, possa essere vissuta dai ragazzi come un momento di conquista di autonomia personale e di gratificazione per il miglioramento dell’autostima, mentre per un allievo “normodotato” come opportunità di arricchimento interiore e stimolo per superare i pregiudizi e i preconcetti rivolti alla “disabilita”.
Quando si parla i Karate integrato, non si fa altro che parlare di una disciplina
marziale che gestisce allenamenti tra allievi disabili e normodotati insieme. Un
allenamento di Karate integrato non ha nulla di specifico o particolare, si tratta
essenzialmente di una normale lezione di Karate, svolta senza particolari
accorgimenti, se non alcune modifiche apportate nel caso in cui nella lezione sia
presente un disabile motorio in carrozzina. Nella foto, è possibile vedere come in una
normale lezione di Karate è possibile eseguire ogni tipo di esercizio senza creare
divisioni specifiche tra allievi normodotati e disabili.
In questo caso, ci troviamo di fronte a due soggetti disabile, il disabile motorio che
usa la carrozzina per muoversi,e il disabile mentale (nella lezione è presente un
soggetto autistico anch’esso cintura gialla). La particolarità dell’allenamento si basa
esclusivamente sull’integrazione tra normodotati e disabili, ma non i sono alcune
modifiche nell’allenamento, non ci sono divisioni strutturali, entrambi si allenano nel
medesimo luogo e nel medesimo orario.
In Italia, non ci sono molte palestre che
attuano questa metodologia di Karate, se ne contano poche e in quel caso non hanno
un alto numero di partecipanti, evidentemente ciò è dovuto allo scetticismo da parte
di molte persone, il più provenienti dal Karate stesso, che non credono sia possibile
che un progetto del genere .
In verità, stiamo parlando di un arte marziale, che come
tutte le altre, si basa essenzialmente sul concetto di miglioramento del proprio corpo,
sia in campo cognitivo che in campo pratico.
La caratteristica essenziale del Karate,
non si basa esclusivamente sul migliorare e migliorarsi, altrimenti si tratterebbe di
un’arte marziale svolta da un singolo individuo senza che abbia contatti con le altre
persone. In effetti, non è questo che Funakoshi chiama : lo spirito del dojo, un
allenamento di Karate viene svolto con tutti allievi, senza fare distinzioni tra etnie,
lingua, società e quindi anche di integrità fisica o mentale, al fine di poter migliorare
insieme supportarsi al fine di raggiungere uno scopo comune qual è non il
raggiungimento del risultato agonistico, bensi il miglioramento di se stessi
mentalmente, fisicamente e spiritualmente.
In una lezione di Karate integrato gli unici accorgimenti che si devono apportare sono
quelli di adattare il Karate al disabile fisico, che si tratti di menomazioni o di varie
categorie di paralisi che costringono il soggetto all’uso della carrozzina, è ovvio che
in questo caso bisogna apportare le opportune modifiche all’allenamento, modifiche
che, tuttavia, non impediscono al disabile a partecipare all’allenamento insieme con
gli altri soggetti.
Non si tratta di applicare dei grandi sconvolgimenti, stiamo parlando
solo di piccole modifiche che il disabile deve apportare al suo modo di allenarsi, il
mancato uso delle gambe o di qualsiasi altro arto del corpo non deve essere un
impedimento, in quest’ottica, abbiamo visto come l’uso delle protesi può
tranquillamente sostituire gli arti perduti.
Ma nel caso del disabile in carrozzina, in tal
caso, gli accorgimenti si basano sull’applicare un’allenamento basato esclusiva mento
su tecniche degli arti superiori, andando a rafforzare petto, spalle, addome, bicipiti,
tricipiti e il resto della muscolatura che va dal tronco in su.
Gli spostamenti in avanti
o indietro, di lato o i cambi di direzione,possono essere allenati anche sul disabile in
carrozzina, certo i tempi di allenamento e di reazione saranno più lunghi, ma ciò non
impedisce al disabile di potersi allenare, insieme agli allievi normodotati, e di
esprimere al massimo le sue capacità.
L'allenamento: kata,kihon,kumite ...
Abbiamo detto che un allenamento generale di karate si svolge in diverse fasi :
stretching, kihon, kata e kumitè.
Tutti questi elementi sono essenziali per fare in
modo che un allenamento di Karate sia efficace e produca risultati prefissati. Nel caso
di un corso di Karate integrato che presenta nel suo interno sia allievi normodotati,
che allievi disabili, il discorso non è diverso.
Lo stretching iniziale non presenta
modifiche di vario genere, stiamo parlando di una fase di semplice riscaldamento, che
combina posizioni di allungamento muscolare sia per arti superiori che inferiori, e di
potenziamento muscolare tramite determinati esercizi a corpo libero facilmente
eseguibili.
Non si applicano particolari accorgimenti, in questa fase, si allenano in
maniera simultanea sia gli arti superiori che quelli inferiori, ovviamente gli esercizi
variano di complessità man mano che il grado di cintura aumenta, ma lo scopo è
sempre lo stesso, ossia preparare il corpo allo sforzo che ne seguirà subito dopo
l’allenamento.
In questa fase il disabile non trova particolari difficoltà, l’unica
eccezione va fatta tenendo conto delle capacità fisiche ed anatomiche residuali del
disabile in carrozzina. Ovviamente bisogna tener conto che un soggetto con paralisi,
che non può usare gambe o una determinata parte del corpo, tramite il Taiso iniziale,
può migliorare e potenziare la parte residuale ancora funzionante o intatta.
Nel caso del Kihon, ossia la combinazione di tecniche di parata e contrattacco con
uno o più movimenti, nel caso di disabilità mentali del tipo autismo o sindrome di
down, dove viene mantenuta l’integrità fisica, il soggetto disabile non riscontra
particolari problemi, mentre nel caso del disabile in carrozzina, il kihon prevede un
ritmo leggermente diverso, ovviamente le tecniche saranno adeguate alle capacità
funzionali, mentre i movimenti, o meglio il ritmo degli spostamenti seguiranno le
esigenze del disabile, ossia dovranno essere necessari a permettere al disabile fisico,
di muovere la carrozzina in modo da eseguire correttamente lo spostamento in
maniera efficace e nel minor tempo possibile.
Come possiamo vedere, ogni spostamento per il disabile in carrozzina, deve
richiedere il tempo necessario affinchè riesca a spostare con entrambe le mani le
ruote e infine eseguire la tecnica richiesta. Ciò non vale solo nel kihon ma anche ne
kata stesso, dove ogni combinazione, ogni tecnica richiede determinati spostamenti
seguiti da un ritmo preciso.
Ovviemente un disabile in carrozzina avrà un ritmo
leggermente diverso da quello dei normodotati, in quanto dovrà avere il tempo
necessario ad effettuare un spostamento con la carrozzina, pertanto il suo tempo nel
kata si basa su : tecnica, tempo necessario a spostare la carrozzina e infine tecnica
seguente.
Si tratta di ritmi diversi, ma ciò non toglie che con l’allenamento, tramite l’esercizio,
la ripetizione costante, i tempi di spostamento si dimezzino, ciò porterà il disabile a
eseguire il kata nello stesso modo e nelle stesse modalità dei normodotati.
Di certo un
disabile mentale, avrà un tempo di assimilazione delle tecniche più lungo per un
disabile fisico, in effetti l’esercizio ripetitivo e costante, può risultare una dura prova
per l’autistico o il soggetto con sindrome di down.
In tal caso molte volte, un
esercizio o una combinazione di tecniche non eseguita correttamente può risultare
frustante, per un soggetto disabile, tuttavia è qui che entra il gioco il compito del
maestro, ossia quello di dare degli input positivi all’allievo. Una semplice frase di
incoraggiamento, una modifica alla postura, o un richiamo severo o comprensivo che
sia, possono diventare elementi di grande importanza per il soggetto disabile che si
sentirà spinto a dare il massimo arrivando a grandi risultati.
Per quanto riguarda il Kumite, il discorso si fa più difficile. In genere nelle varie
discipline come il judo o la scherma, possiamo vedere come i soggetti disabili
riescano a gareggiare tra di loro nei più alti livelli di competizione, i non vedenti col
judo riescono ad eseguire tecniche notevoli pari a quelle eseguite dai normodotati,
nella scherma, invece, i disabili in carrozzina riescono ad eseguire affondi o parate di
fioretto o di spada a velocità impressionanti pari a quelle dei campioni olimpionici,
eppure non vedremo mai un Judoka non vedente gareggiare con un Judoka
normodotato, oppure non vedremo mai uno schermidore disabile gareggiare contro
uno schermidore normodotato.
Nel karate il discorso non è molto diverso, purtroppo
stiamo parlando del Kumite dove sono necessarie velocità e tempi di reazione
altissimi, i ritmi sono frenetici e il tempo che intercorre tra parata e contrattacco sono
brevissimi, se non addirittura nulli. Sarebbe difficile per un disabile mentale o fisico
che sia riuscire ad adeguarsi ai tempi di reazione dei normodotati. Tuttavia il
continuo allenamento, la pratica estenuante, la continua ricerca della forma perfetta di
Kumite dell’allievo, porta il Karateka disabile a una condizione fisica tale da poter
risultare competitivo ad alti livelli di agonismo.
Tutto si basa sul continuo
allenamento, il ripetersi costante di esercizi e tecniche eseguite di volta in volta, in
maniera sempre più precisa, a velocità sempre più elevate permettono all’atleta
disabile di poter effettuare rapidi spostamenti, tempestive combinazioni a velocità
impressionante che gli permetteranno di eguagliare e, dove possibile, superare gli
altri allievi normodotati.
Il segreto sta nel non porsi mai limiti, la velocità, una buona
tecnica sono tutti elementi essenziali di un allievo che non si arrende mai di fronte a
qualsiasi tipo di difficoltà, lo spirito di competizione sana che si crea nel dojo, è una
spinta ulteriore a indurre l’allievo disabile a voler fare di più, a voler dare il massimo
e cercare di superare i suoi compagni. Non si creano distinzioni tra disabile o
normodotati, tutti sono spinti dagli stessi obbietivi, ossia dare il massimo al fine di
raggiungere livelli competitivi ottimali, e il Kasrate integrato è un elemento
essenziale nel raggiungimento di tali obbiettivi, in esso l’atleta disabile può vedere
come gli altri allievi eseguono determinate tecniche, come si spostano per evitare un
colpo, come fare per riuscire ad entrare nella difesa dell’avversario, in poche prole
può confrontare i suoi movimenti con gli altri, capire cosa sbaglia e, senza avvilirsi,
riuscire a migliorare le sue tecniche tramite questo confronto cognitivo.
L'importanza del Maestro..
In Italia, non sono molte le palestre che praticano un Karate che riesca a mettere
insieme allievi normodotati con allievi disabili, in genere la maggior parte dei maestri
risulta, giustamente, più semplice attuare una differente allenamento tra normodotati
e disabili, cosi creando due classi distinte di allievi e due tipi diversi di allenamento.
In questo modo il disabile può allenarsi in maniera singolare al fine di riuscire a
ottenere risultati efficaci nelle competizioni. In verità, la maggior parte delle palestre
mira al risultato piuttosto che alla crescita cognitiva e fisica dell’allievo, perdendo di
vista il concetto fondamentale di crescita tramite il confronto con gli altri, che è un
elemento fondamentale nel karate stesso.
Secondo i maestri, non esistono
differenzazioni, nel caso in cui il corso riguardi dei bambini, tutto si riduce al gioco,
che si tratti di bambini disabili o normodotati, è bene che il maestro riesca a
coinvolgerli tramite una forma di karate esprimibile con il gioco in cui tutti possano
partecipare e apprendere. Nel caso di allievi di piccola età, è bene creare degli
espedienti di allenamento al Karate traducibili col gioco, ogni forma di kihon o kata
può essere rivisitata tramite un gioco, magari una sorta di gara a chi è più veloce
nell’eseguire la tecnica, o chi riesca passare più velocemente da una posizione
all’altra in forma corretta ed equilibrata, in poche parole, per i piccoli allievi disabili
o normodotati sarebbe opportuno creare un tipo di Karate che sia esprimibile tramite
il gioco, la forma più coinvolgente per un bambino per partecipare alle lezioni e
indurlo a migliorare e cercare di fare meglio degli altri compagni nel rispetto dei
compagni stessi.
In questo contesto, anche il bambino disabile si sentirà spinto a
partecipare e a dare il meglio nel gioco che gli viene proposto, diventando una delle
pedine fondamentali per portare la squadra o se stesso alla vittoria del gioco stesso,
valorizzando quindi le sue capacità.
Nel caso degli allievi di maggiore età, con una certa maturazione marziale, il discorso
sarà più complesso. In questo caso, il gioco non può diventare più una forma di
apprendimento al Karate, un allievo di cintura superiore (marrone o nera) è
consapevole che i risultati raggiunti e da raggiungere saranno frutti del continuo e
costante allenamento.
In questo caso, il compito del maestro, non srà più quello di
invogliare tramite il gioco i propri allievi, ma in tal caso sarà quello di guidare
l’allievo verso un miglioramento delle tecniche apprese quando era cintura inferiore,
l’allievo adulto non deve essere invogliato, ma spinto a dare il massimo in
allenamento, le modifiche tecniche, gli accorgimenti alla postura, vanno fatti
invogliando l’allievo, normodotato o disabile, al miglioramento. Un maestro di
Karate integrato non attua nessuna tipo di differenzazione, se c’è da rimproverare la
mancanza di dedizione o impegno nell’allenamento, non si crea problema se l’allievo
è disabile o normodotato.
Non si tratta di invogliare l’allievo a essere il migliore, ma
si tratta di portare l’allievo stesso a dare il massimo, con qualsiasi tipo di input
positivo severo o moderato che sia, l’importante è che l’allievo si senta una parte
integrante di un gruppo di artisti marziali che dà il massimo, che voglia migliorare
insieme alla ricerca di uno scopo comune, ossia il miglioramento interiore ed
esteriore.
Nel Karate integrato le parole, i suggerimenti e i consigli del maestro, sono dispensati
a ogni allievo e in qualsiasi modo, qualora il maestro si mostri apprensivo o morbido
nei confronti dell’allievo disabile, magari mostrando un’errata comprensione per le
sue condizioni, senza modificare delle tecniche sbagliate, una posizione sbagliata nel
Kata e non richiamata, senza correggere un atteggiamento svogliato nel Kumite o
nell’allenamento, finirà col creare una sorta di involontaria estraneazione del disabile
dal gruppo, il quale finirà col percepire questo suo senso di diversità, accentuando il
senso di diversità tra disabile e normodotato che dovrebbe essere del tutto estraneo al
Karate integrato.
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lunedì 19 maggio 2014
lunedì 12 maggio 2014
Il Karate e le Donne...
Oggi, molto diversamente dal passato, sempre più donne praticano il karate.
Non credo che sia particolarmente utile chiedersi il perché, tuttavia sono proprio le donne che pensano di avvicinarsi a questa pratica che domandano se può essere opportuno lasciarsi affascinare.
Dal punto di vista strettamente legato alla tecnica di sicuro non c'è nessuna controindicazione. Anzi le donne, per le loro caratteristiche fisiche, risultano avere una agilità e abilità che le predispongono positivamente alla pratica del karate.
Quello che chiedono spesso le praticanti è di poter praticare essendo considerate come il resto del gruppo formato dall'altro sesso, ma penso che tale discriminazione risieda più nella loro volontà di affermarsi come individuo "alla pari" , che nei compagni di allenamento o nel maestro. E credo che questo sia il frutto di pregiudizi e informazioni errate.
Di sicuro generalmente si pensa alla pratica del karate come ottimo metodo per difesa personale, ma ritengo opportuno sottolineare che non deve essere questo l'unico aspetto da valutare.
Caratteristiche come l'acquisizione di una profonda conoscenza del proprio corpo, l'accettazione dei propri limiti e l'esaltazione delle proprie capacità sono solo alcuni degli elementi che si affiancano ad un percorso che mette in relazione le abilità fisiche a quelle mentali.
Molti possono pensare che il karate possa compromettere i comportamenti legati alla femminilità, a questo proposito cito un intervento risalente al secondo Congresso di Medicina dello Sport tenutosi lo scorso luglio 2003 della endocrinologa Maria Luisa Brandi, docente all'Università di Firenze e tra i massimi esperti in materia di osteoporosi e di medicina sportiva in Italia:
«Qualcuno si arrabbierà ma diciamo la verità: meno danza classica e più atletica, meno cavallo e più Arti Marziali, meno sci e più nuoto. "Bambine, l'800 è finito, ditelo ai vostri genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura muscolo-scheletrica ed un fisico equilibrato"» «Per una ragazza è essenziale imparare le Arti Marziali: oltre al fatto che servono all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono discipline complete, danno una concentrazione straordinaria, fiducia in se stessi, senso dell'equilibrio e concezione dello spazio che sono i requisiti primi dell'eleganza del portamento...»
Per completezza di informazione aggiungiamo cenni storici riguardanti le donne nelle arti marziali e alcuni pareri discordanti di grandi maestri:
La lista dei contributi femminilli alle arti marziali non è affatto breve. Cominciamo dal queste tre rappresentanti:
Alcune dichiarazioni di grandi maestri
Nakayama:
"Perché le donne devono fare le gare, farci vedere chi vince o non vince? Nei combattimenti occidentali, come la boxe o la lotta, non esistono gare femminili. Perché nel karate? Per il momento io non posso credere che le donne debbano fare gare di kumite. Possono raggiungere lo stesso risultato attraverso strade diverse".
Shirai:
"Le donne sono tecnicamente molto precise. Io considero più importante praticare un buon karate, fondamentali e kata, che il kumite sportivo. A mio avviso non troppe donne dovrebbero praticare il kumite, anche se alcune donne hanno buone tecniche per il combattimento libero".
Kanazawa:
"Non c'è una ragione precisa, ma credo che nell'universo esistano due poli, il positivo e il negativo. L'uomo è il positivo, la donna è il negativo: la donna non è fatta per il combattimento".
Yamaguchi:
"Ritengo che togliere il kumite alle donne sarebbe come escluderle da una buona parte del Karate-Budo. Per una donna inoltre il kumite riveste doppia importanza, in quanto le offre un ottimo mezzo di difesa personale. È importante che le donne imparino lo stesso spirito del karate e ricerchino lo stesso fine, che è comune a uomini e donne".
Non credo che sia particolarmente utile chiedersi il perché, tuttavia sono proprio le donne che pensano di avvicinarsi a questa pratica che domandano se può essere opportuno lasciarsi affascinare.
Dal punto di vista strettamente legato alla tecnica di sicuro non c'è nessuna controindicazione. Anzi le donne, per le loro caratteristiche fisiche, risultano avere una agilità e abilità che le predispongono positivamente alla pratica del karate.
Quello che chiedono spesso le praticanti è di poter praticare essendo considerate come il resto del gruppo formato dall'altro sesso, ma penso che tale discriminazione risieda più nella loro volontà di affermarsi come individuo "alla pari" , che nei compagni di allenamento o nel maestro. E credo che questo sia il frutto di pregiudizi e informazioni errate.
Di sicuro generalmente si pensa alla pratica del karate come ottimo metodo per difesa personale, ma ritengo opportuno sottolineare che non deve essere questo l'unico aspetto da valutare.
Caratteristiche come l'acquisizione di una profonda conoscenza del proprio corpo, l'accettazione dei propri limiti e l'esaltazione delle proprie capacità sono solo alcuni degli elementi che si affiancano ad un percorso che mette in relazione le abilità fisiche a quelle mentali.
Molti possono pensare che il karate possa compromettere i comportamenti legati alla femminilità, a questo proposito cito un intervento risalente al secondo Congresso di Medicina dello Sport tenutosi lo scorso luglio 2003 della endocrinologa Maria Luisa Brandi, docente all'Università di Firenze e tra i massimi esperti in materia di osteoporosi e di medicina sportiva in Italia:
«Qualcuno si arrabbierà ma diciamo la verità: meno danza classica e più atletica, meno cavallo e più Arti Marziali, meno sci e più nuoto. "Bambine, l'800 è finito, ditelo ai vostri genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura muscolo-scheletrica ed un fisico equilibrato"» «Per una ragazza è essenziale imparare le Arti Marziali: oltre al fatto che servono all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono discipline complete, danno una concentrazione straordinaria, fiducia in se stessi, senso dell'equilibrio e concezione dello spazio che sono i requisiti primi dell'eleganza del portamento...»
Per completezza di informazione aggiungiamo cenni storici riguardanti le donne nelle arti marziali e alcuni pareri discordanti di grandi maestri:
La lista dei contributi femminilli alle arti marziali non è affatto breve. Cominciamo dal queste tre rappresentanti:
-
Ng Mui
Leggendaria sacerdotessa, sfuggita alla distruzione del monastero Shaolin di Fujian. Diventò celebre per aver crato uno stile personale basato sull'osservazione dei comportamenti degli animali in combattimenti, in particolare prese spunto osservando una lotta tra un serpente e una gru. Si narra che utilizzò il suo metodo di combattimento per resistere alle insistenzi avances signore della guerra locale. -
Yim Wing-Chun
Allieva di Ng Mui. Dopo la creazione del suo stile personale, Ng Mui trasferi' le sue esperienze ad una altra donna: Yim Wing-chun. Dal suo nome deriva lo stile reso popolare in occidente da Bruce Lee. -
Yonamine Chiru
Nel karate di Okinawa si ricorda la figura di Yonamine Chiru, moglie di "Karate" Sakugawa, maestro di Matsumura e caposcuola dello Shuri-te, che l'avrebbe sposata dopo essere stato sconfitto da lei in combattimento.
Alcune dichiarazioni di grandi maestri
Nakayama:
"Perché le donne devono fare le gare, farci vedere chi vince o non vince? Nei combattimenti occidentali, come la boxe o la lotta, non esistono gare femminili. Perché nel karate? Per il momento io non posso credere che le donne debbano fare gare di kumite. Possono raggiungere lo stesso risultato attraverso strade diverse".
Shirai:
"Le donne sono tecnicamente molto precise. Io considero più importante praticare un buon karate, fondamentali e kata, che il kumite sportivo. A mio avviso non troppe donne dovrebbero praticare il kumite, anche se alcune donne hanno buone tecniche per il combattimento libero".
Kanazawa:
"Non c'è una ragione precisa, ma credo che nell'universo esistano due poli, il positivo e il negativo. L'uomo è il positivo, la donna è il negativo: la donna non è fatta per il combattimento".
Yamaguchi:
"Ritengo che togliere il kumite alle donne sarebbe come escluderle da una buona parte del Karate-Budo. Per una donna inoltre il kumite riveste doppia importanza, in quanto le offre un ottimo mezzo di difesa personale. È importante che le donne imparino lo stesso spirito del karate e ricerchino lo stesso fine, che è comune a uomini e donne".
venerdì 9 maggio 2014
L' Arte del KIAI
Il Kiai è un grido pieno di forza ed intenzione a costituire il desiderio di portare a compimento una tecnica marziale. La parola è formata da “ki” , in giapponese mente , volontà, disposizione d’animo e da “ai ”, contrazione del verbo “awaseru ”, che significa unire , congiungere, ovvero una manifestazione dell’energia interna con un suono che crea . A questo scopo si utilizza il grido nella forma esteriore come modo di controllare il ki, come arte di dirigere le energie . Nelle pratiche marziali il kiai è di estrema importanza e questo studio, che raggiunse i livelli massimi nel Giappone Feudale, è ancora oggi impiegato in molte discipline come il karate, il judo e l’aikido.
La parola, Kiai è composta da due ideogrammi:
Ki , raffigura l'energia vitale e universale comune a tutti gli esseri viventi.
Ai , rappresenta l'armonia universale.
Esprime, anche, un grido che rivela e manifesta quel principio orientale di unità ed armonia presente in ogni cosa. Fisicamente, esso permette di collegare, attraverso la cintura addominale, la forza delle masse muscolari che si trovano nella parte bassa con quelle della parte alta del corpo. Energicamente, rivela le vibrazioni dei Chakra.
Le origini
In Giappone si sa pochissimo dell’arte del kiai, ma sono visibili le eredità lasciate ai maggiori Maestri delle arti marziali che tutt’oggi subordinano i fattori esterni del combattimento, armi e tecniche, a elementi di natura interiore, controllo e potenza. Nello specifico quest’arte era vista come l’impiego della voce umana in combattimento, con il duplice effetto di intimorire il nemico e rafforzare il proprio spirito. La particolarità di quest’arte è, in realtà, la tecnica usata, un vettore di eccezionale impatto emotivo: la voce umana. Kiai era il nome dato generalmente a quello specifico metodo di combattimento basato sull’impiego del grido come arma; con l’andare del tempo gli antichi combattenti giapponesi, i “Bushi”, affinarono questa pratica fino a farla diventare un’arte completa in se stessa. Le origini si identificano strettamente con l’immagine di un uomo posto di fronte a una realtà ostile. Il grido, infatti, rappresenta la reazione primordiale al pericolo e alla richiesta di aiuto ed è in grado di far vacillare un nemico o arrestarne addirittura l’attacco. In Giappone questa tecnica fu perfezionata a tal punto da farne la sola arma usata: il guerriero studiava come sviluppare un urlo che incanalasse in tono, altezza e intensità della voce, tutta la sua energia. Il valore tattico del grido nell’influenzare o determinare il risultato del combattimento venne così inserito come studio approfondito delle segretissime scuole marziali per sfruttarne appieno l’effetto paralizzante.
La pratica
L’arte del kiai occupa una posizione specifica nei metodi disarmati da combattimento e al contempo unica. Una pratica esoterica in cui le tecniche e le strategie sofisticate si riducono all’estensione della potenza pura, immateriale, “che non si vede ad occhio nudo”, ma in grado di sopraffare l’avversario. Il kiai abbraccia i concetti di armonia e di spirito. Ki viene spesso usato nel senso di energia, carattere e perciò come indice della personalità del praticante. Ecco che la pratica di quest’arte si concentra sullo sviluppo di una personalità magnetica in grado, attraverso un altro livello di concentrazione, di evocare, attraverso un grido, forti poteri di suggestione atti a “demolire” psicologicamente un attaccante.
Le tecniche
Attraverso una forte contrazione diaframmatica verso il basso, durante la fase espiratoria, si emette un suono profondo (inizialmente seguendo “alla lettera” il suono K I A I) prodotto esercitando la massima pressione sulla parte addominale, in giapponese “hara” in posizione Kiba Dachi. Si definisce haragei il punto massimo di specializzazione dell’arte dei kiai. La documentazione esistente circa le scuole e le tecniche di addestramento è pressocchè inesistente. Si conoscono alcuni particolari:
Ki, l’energia che segue il pensiero...
Energia vitale universale che impregna ogni forma manifesta, dandole vita, movimento ed essere. Dall’unione del ki e della forma si sviluppa lo spirito marziale.
La parola, Kiai è composta da due ideogrammi:
Ki , raffigura l'energia vitale e universale comune a tutti gli esseri viventi.
Ai , rappresenta l'armonia universale.
Esprime, anche, un grido che rivela e manifesta quel principio orientale di unità ed armonia presente in ogni cosa. Fisicamente, esso permette di collegare, attraverso la cintura addominale, la forza delle masse muscolari che si trovano nella parte bassa con quelle della parte alta del corpo. Energicamente, rivela le vibrazioni dei Chakra.
Le origini
In Giappone si sa pochissimo dell’arte del kiai, ma sono visibili le eredità lasciate ai maggiori Maestri delle arti marziali che tutt’oggi subordinano i fattori esterni del combattimento, armi e tecniche, a elementi di natura interiore, controllo e potenza. Nello specifico quest’arte era vista come l’impiego della voce umana in combattimento, con il duplice effetto di intimorire il nemico e rafforzare il proprio spirito. La particolarità di quest’arte è, in realtà, la tecnica usata, un vettore di eccezionale impatto emotivo: la voce umana. Kiai era il nome dato generalmente a quello specifico metodo di combattimento basato sull’impiego del grido come arma; con l’andare del tempo gli antichi combattenti giapponesi, i “Bushi”, affinarono questa pratica fino a farla diventare un’arte completa in se stessa. Le origini si identificano strettamente con l’immagine di un uomo posto di fronte a una realtà ostile. Il grido, infatti, rappresenta la reazione primordiale al pericolo e alla richiesta di aiuto ed è in grado di far vacillare un nemico o arrestarne addirittura l’attacco. In Giappone questa tecnica fu perfezionata a tal punto da farne la sola arma usata: il guerriero studiava come sviluppare un urlo che incanalasse in tono, altezza e intensità della voce, tutta la sua energia. Il valore tattico del grido nell’influenzare o determinare il risultato del combattimento venne così inserito come studio approfondito delle segretissime scuole marziali per sfruttarne appieno l’effetto paralizzante.
La pratica
L’arte del kiai occupa una posizione specifica nei metodi disarmati da combattimento e al contempo unica. Una pratica esoterica in cui le tecniche e le strategie sofisticate si riducono all’estensione della potenza pura, immateriale, “che non si vede ad occhio nudo”, ma in grado di sopraffare l’avversario. Il kiai abbraccia i concetti di armonia e di spirito. Ki viene spesso usato nel senso di energia, carattere e perciò come indice della personalità del praticante. Ecco che la pratica di quest’arte si concentra sullo sviluppo di una personalità magnetica in grado, attraverso un altro livello di concentrazione, di evocare, attraverso un grido, forti poteri di suggestione atti a “demolire” psicologicamente un attaccante.
Le tecniche
Attraverso una forte contrazione diaframmatica verso il basso, durante la fase espiratoria, si emette un suono profondo (inizialmente seguendo “alla lettera” il suono K I A I) prodotto esercitando la massima pressione sulla parte addominale, in giapponese “hara” in posizione Kiba Dachi. Si definisce haragei il punto massimo di specializzazione dell’arte dei kiai. La documentazione esistente circa le scuole e le tecniche di addestramento è pressocchè inesistente. Si conoscono alcuni particolari:
-
Unificazione preliminare di energie nell’hara .
- Paralizzare, uccidere o salvare la vita di un altro guerriero con un grido concentrato
-
Kiai come vettore di energia .
-
Funzione di rafforzare la regione del tanden , parte dell’addome situata poco sotto l’ombelico, e quindi fattore dello sviluppo del coraggio fisico e del potere di uno spirito forte e determinato .
-
Nel combattimento, così come nella competizione sportiva, il grido è utilizzato per arrivare al bersaglio e simboleggia un colpo definitivo a cui partecipano corpo, spirito e cuore .
-
Il kiai viene impostato con esercizi e poi coltivato con attenzione finché si incanala spontaneamente nella forma che arricchisce l'azione marziale .
Ki, l’energia che segue il pensiero...
Energia vitale universale che impregna ogni forma manifesta, dandole vita, movimento ed essere. Dall’unione del ki e della forma si sviluppa lo spirito marziale.
Karategi o Kimono da Karate?
Qual è il nome più corretto per definire l’indumento, ovvero l’abito da allenamento che usiamo ogni volta che entriamo nel dojo? È sicuramente molto più facile che abbiate sentito parlare di kimono da karate, perché è una parola semplicemente molto famigliare che si ritrova in molti discorsi associati al Giappone.
Ma dobbiamo qui ricordarlo che la corretta definizione di kimono è: “Indumento tradizionale giapponese costituito da una specie di lunga tunica incrociata davanti, con maniche molto larghe, stretta in vita da una fascia allacciata dietro” inoltre ( 着物 letteralmente cosa da indossare quindi abito) è un indumento tradizionale giapponese nonché il costume nazionale giapponese. In italiano è largamente usata anche la grafia adattata “chimono”. In origine il termine “kimono” veniva usato infatti per ogni tipo di abito; in seguito è passato ad indicare specificamente l’abito lungo portato ancor oggi da persone di entrambi i sessi e di tutte le età. Il kimono è molto simile agli abiti in uso durante la dinastia cinese Tang. Ad ogni modo, da tutto questo si capisce che non possiamo disapprovare completamente chi dice kimono da karate, più che altro potremmo dire che è un termine troppo generico che può essere frainteso con un abito da cerimonia e non certo adatto ad allenarsi e sudare in un dojo. Il termine più spedifico è KeikoGi o meglio ancora KarateGi. keikogiKeikogi o dogi (稽古着 o 稽古衣) è un’uniforme per l’allenamento utilizzata nelle arti marziali giapponesi, il budō. Il termine significa “uniforme di allenamento” da keiko, “pratica”, e gi, “vestito”. Gi è un termine complesso con più significati (come scrivo qui), perciò il tutto si potrebbe tradurre con abito che è nostro dovere indossare per poterci allenare nel luogo che conduce alla via. Spesso “keiko” viene sostituito con il nome dell’arte marziale specifica, nel nostro caso Karate-Gi.
L’utilizzo di una divisa uguale per tutti i praticanti, fu imposto dal Dai Nippon Butokukai (organo ufficiale giapponese che controllava tutte le scuole di arti marziali) che la pose come una delle condizioni che avrebbero permesso alla nuova arte giunta da Okinawa, di essere accettata tra quelle giapponesi.Prima di allora, infatti, ci si allenava con quello che si aveva addosso, il che era inaccettabile per l’ordinata mentalità nipponica, specie se applicata alle arti marziali, che seguivano il modello organizzativo militare. Detto questo, consideriamo che il karategi è più che una divisa da indossare durante l’allenamento. Esso è un compagno di percorso che si lega a noi assecondando i nostri sforzi, le difficoltà, le paure, il dolore… Per me è diverso fare karate con abiti normali, seppur comodi, sento che manca qualcosa, una componente che è entrata a far parte della presa di coscienza e del rispetto mutuato dalla tradizione del budo e non dal fitness o dallo sport.
Ma dobbiamo qui ricordarlo che la corretta definizione di kimono è: “Indumento tradizionale giapponese costituito da una specie di lunga tunica incrociata davanti, con maniche molto larghe, stretta in vita da una fascia allacciata dietro” inoltre ( 着物 letteralmente cosa da indossare quindi abito) è un indumento tradizionale giapponese nonché il costume nazionale giapponese. In italiano è largamente usata anche la grafia adattata “chimono”. In origine il termine “kimono” veniva usato infatti per ogni tipo di abito; in seguito è passato ad indicare specificamente l’abito lungo portato ancor oggi da persone di entrambi i sessi e di tutte le età. Il kimono è molto simile agli abiti in uso durante la dinastia cinese Tang. Ad ogni modo, da tutto questo si capisce che non possiamo disapprovare completamente chi dice kimono da karate, più che altro potremmo dire che è un termine troppo generico che può essere frainteso con un abito da cerimonia e non certo adatto ad allenarsi e sudare in un dojo. Il termine più spedifico è KeikoGi o meglio ancora KarateGi. keikogiKeikogi o dogi (稽古着 o 稽古衣) è un’uniforme per l’allenamento utilizzata nelle arti marziali giapponesi, il budō. Il termine significa “uniforme di allenamento” da keiko, “pratica”, e gi, “vestito”. Gi è un termine complesso con più significati (come scrivo qui), perciò il tutto si potrebbe tradurre con abito che è nostro dovere indossare per poterci allenare nel luogo che conduce alla via. Spesso “keiko” viene sostituito con il nome dell’arte marziale specifica, nel nostro caso Karate-Gi.
L’utilizzo di una divisa uguale per tutti i praticanti, fu imposto dal Dai Nippon Butokukai (organo ufficiale giapponese che controllava tutte le scuole di arti marziali) che la pose come una delle condizioni che avrebbero permesso alla nuova arte giunta da Okinawa, di essere accettata tra quelle giapponesi.Prima di allora, infatti, ci si allenava con quello che si aveva addosso, il che era inaccettabile per l’ordinata mentalità nipponica, specie se applicata alle arti marziali, che seguivano il modello organizzativo militare. Detto questo, consideriamo che il karategi è più che una divisa da indossare durante l’allenamento. Esso è un compagno di percorso che si lega a noi assecondando i nostri sforzi, le difficoltà, le paure, il dolore… Per me è diverso fare karate con abiti normali, seppur comodi, sento che manca qualcosa, una componente che è entrata a far parte della presa di coscienza e del rispetto mutuato dalla tradizione del budo e non dal fitness o dallo sport.
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